In questo secondo numero di Fare Comunità vogliamo raccontarvi una storia. Si tratta di una storia fatta di sofferenza, ma allo stesso tempo di coraggio e speranza. La storia di un bambino afgano che a soli sei anni ha deciso di lasciare la propria terra per cercare una sorte migliore.
«Raccontare la mia storia mi piace, perché la storia di ogni persona è importante, perché grazie alla conoscenza della storia di ognuno di noi possiamo capire difficoltà, situazioni ed errori commessi da noi stessi e su noi stessi da parte di altri: possiamo imparare lezioni utili per il nostro percorso di vita». Questa è stata la prima cosa che ci ha detto Rahmat Rezai, giovane studente poco più che ventenne, il quale vive a Piedimonte Matese da circa dieci anni.
«Sono un ragazzo afgano e ho lasciato l’Afghanistan a cinque anni, nel 1996, quando i talebani presero il potere nel Paese. La popolazione afgana è costituita da quattro etnie diverse. La mia etnia era quella minoritaria, perché raggruppava circa il 10% della popolazione. Tuttavia, essa discendeva dal popolo originario afgano e allora possedeva il controllo militare ed economico dell’Afghanistan. Questa situazione non era ben vista dai talebani, che così cominciarono a eliminare fisicamente quelle persone che ricoprivano cariche di rilievo. Inoltre, i talebani professavano anche una religione diversa dalla nostra e ciò rappresentava un ulteriore motivo di scontro: loro musulmani sunniti, noi sciiti», spiega Rahmat.
Pertanto, Rahmat, appena cominciata la guerra e prima che venisse occupato anche il suo territorio, ha lasciato il proprio Paese e si è diretto con la sua famiglia verso l’Iran.
«Ho perso i miei genitori lungo il tragitto per l’Iran. In Iran sono cresciuto, a sei anni lavoravo e andavo a scuola», racconta. «La situazione in Iran non era tranquilla, perché i ragazzi afgani, come me, non avevano alcun diritto relativo allo studio. Ad esempio: io volevo studiare, era la mia passione, ma a sei anni già dovevo lavorare e non ho mai vissuto momenti di felicità come giocare con i compagni, perché fondamentalmente di tempo non ne avevo. Quel poco tempo libero lo usavo per studiare, nonostante le stanchezze del lavoro, ma in quel poco tempo cercavo di fare il massimo».
L‘Iran non era il posto adatto a lui: lì non poteva realizzare il suo sogno che era – ed è tuttora – quello di diventare qualcuno. A 12 anni si è diretto in Turchia. Appena passato il confine turco si è stabilito in una città per qualche settimana. Lì c’erano individui che, a pagamento, trasportavano persone come Rahmat. «Abbiamo pagato, siamo saliti su un camion, circa 60 persone, e abbiamo affrontato un viaggio di 48 ore verso Istanbul senza bere, né mangiare, né andare in bagno».
Giunto a Istanbul, Rahmat e altri ragazzi hanno comprato un gommone e sono partiti verso la Grecia. «Per me era la prima volta in cui vedevo il mare, seppur di notte. Lungo il tragitto abbiamo perso qualche remo: si rompevano perché erano di plastica. Abbiamo rischiato di finire schiacciati da una nave gigantesca, ma per fortuna la corrente del mare ci ha salvati».
Arrivati su un’isola greca, sono andati alla ricerca di cibo. La polizia li ha visti, li ha arrestati e portati in caserma, dove sono rimasti per qualche giorno. Quando li hanno rilasciati sono potuti andare ad Atene in nave, grazie ai documenti rilasciati dalla caserma stessa. «Non avevamo soldi, inizialmente ci hanno offerto del cibo, poi siamo andati a lavorare in un campo, dove ci sfruttavano, senza pagarci un granché».
Rahmat in Grecia ha avuto un incidente che lo ha costretto a fermarsi, mentre gli altri suoi compagni di viaggio sono riusciti a partire e a raggiungere altri paesi europei. «Io sono rimasto in una casafamiglia, ma dopo un po’ di tempo sono scappato perché volevo venire in Italia. Così, insieme a un amico, che adesso vive con me, siamo riusciti a partire attaccandoci sotto a un camion senza farci scoprire dalla polizia».
A maggio 2007 il camion è sbarcato in Puglia. «Dopo aver camminato quattro giorni, da Bari siamo arrivati a Pietravairano. Lì la polizia ci ha arrestati e ci ha controllati. E per fortuna siamo capitati nella casafamiglia a Piedimonte».
L’Italia è stato un luogo fin da subito affascinante per Rahmat, sia per l’atmosfera, sia per il verde dei paesaggi, sia per il «calore di pace» tra le persone, ci dice.
Come è stato detto, a Piedimonte è capitato in una casafamiglia che, non solo lo ha ben accolto, gli ha permesso di coltivare il suo sogno: studiare. «Eravamo una vera famiglia, cosa che io non ho mai avuto. Ho frequentato fin da subito la Scuola Media “Giacomo Vitale” e l’Oratorio Salesiano Don Bosco, dove ho conosciuto persone meravigliose: giocavamo e ci divertivamo e io non avevo mai vissuto momenti del genere».
Con Rahmat abbiamo anche accennato al tema dello Ius Soli e alla possibilità per lui di diventare magari, un domani, cittadino italiano. «Mi piacerebbe diventare cittadino italiano, perché sono qui da dieci anni e ho mangiato pane italiano (ride, ndr) per tutto questo tempo. L’Italia è un paese meraviglioso e mi piacerebbe poterla migliorare in futuro».
Ma adesso chi è Rahmat? Che cosa fa? «Il mio sogno resta comunque quello di studiare. Dopo le scuole medie ho frequentato il liceo sempre a Piedimonte e adesso sono all’università. All’inizio volevo fare il medico per poter aiutare le persone, soprattutto quelle in luoghi di guerra. Poi, però, ho scelto ingegneria meccanica. Da piccolo passavo il tempo ad aggiustare ogni cosa. È una facoltà affascinante! Spero comunque di poter aiutare gli altri, perché le persone si possono aiutare in tanti modi».
Questa è la storia di Rahmat. Una storia, probabilmente, come tante, oggigiorno, in Europa, visti i tanti flussi migratori verso il nostro continente. Una storia che abbiamo voluto fortemente raccontare, affinché possa essere una lezione di vita per la nostra comunità, attingendo da esperienze, situazioni ed errori commessi che rischiano di alimentare i nostri giudizi e pregiudizi. Una morale che per la maggior parte di voi potrà essere banale, ma che rappresenta l’essenza del nostro divenire: i sogni muovono la vita.

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