Il Parco Nazionale del Matese: un “Bene Comune” per le nostre comunità.

“La tragedia dei beni comuni”

Il dibattito internazionale sui beni comuni, nella seconda metà del secolo scorso, ha visto protagonista, in particolare, le attività intellettuali di Garret Hardin ed Elinor Ostrom.

Nel suo articolo “The tragedy of the commons” (La tragedia dei beni comuni), scritto e pubblicato su Science nel 1968, l’ecologo Garret Hardin, volendo affrontare il problema della sovrappopolazione che già si manifestava in quegli anni, genera una riflessione sui beni comuni e sulla tragedia alla quale sembrano inevitabilmente destinati. Hardin sostiene che uno spazio geograficamente finito e dotato di risorse limitate, come quello del nostro Pianeta, non può in nessun modo supportare un aumento demografico esponenziale poiché questo porterebbe ad un uso irrazionale delle risorse del pianeta e all’impossibilità di garantire un minimo di benessere per ciascuna persona.

Per dimostrare la sua tesi Hardin propone l’esempio di un campo ad accesso aperto a dei pastori che si trovano di fronte al dilemma di quante pecore farvi accedere.

I pastori, basandosi su un mero calcolo egoista, non possono che tendere alla massimizzazione del proprio profitto, non curandosi degli effetti dannosi per il campo. Ogni pastore, pensando che tutti gli altri agirebbero allo stesso modo, sarebbe portato a spingere tutte le sue pecore nel campo per trarne massimo vantaggio. Il pastore che, preoccupandosi del futuro del campo, decidesse di limitare l’accesso delle sue pecore, non solo non riuscirebbe ad impedirne la devastazione ma non otterrebbe nemmeno vantaggio nell’immediato. Di conseguenza ogni pastore è portato ad introdurre il numero massimo di pecore nel campo, accelerando di fatto la sua distruzione.

Hardin, che non ripone grande fiducia nel genere umano, ritiene che tutti gli individui utilizzino le risorse condivise, limitate e facilmente accessibili, esclusivamente in vista di una razionale massimizzazione dei propri interessi immediati e determinino, in questo modo, il destino tragico di quelle stesse risorse, ovvero dei “beni comuni”. Ritiene, quindi, che solo attraverso misure coercitive sia possibile regolare e limitare l’utilizzo delle risorse comuni e propone come uniche possibilità, alternativamente, le due soluzioni classiche del “mercato” e dello “stato”.

L’articolo di Hardin riscuote subito grande successo ma anche aspre critiche. L’opposizione più forte è stata avanzata dalla “teoria dei commons” di Elinor Ostrom, prima donna ad essere insignita, nel 2009, del Premio Nobel per l’Economia per la sua attività di ricerca sulle modalità di gestione delle risorse comuni e, più in particolare, sulla loro sostenibilità economica di lungo periodo.

La Ostrom, superando la posizione di Hardin, propone infatti un terzo scenario, che si affianca a quelli classici della privatizzazione e del controllo statale dei beni comuni. In questo nuovo modello gli attori interessati a determinate risorse condivise possono stipulare una sorta di “contratto vincolante per impegnarsi in una strategia collaborativa che essi stessi ideeranno”. Olstrom presenta diversi esempi reali che confermano la sua teoria. In particolare, il caso della gestione dell’area di pesca della zona costiera di Alanya in Turchia e il caso del villaggio di Torbel in Svizzera, dove la comunità si è accordata con successo sullo sfruttamento dei campi per la coltivazione e per il pascolo.

Gli esempi di successo di beni comuni autogovernati, in cui le regole sono state ideate e modificate dai partecipanti stessi, e che sono anche sorvegliate e fatte applicare da loro, consentono anche di individuare i fattori e le condizioni necessarie per il buon esito del modello.

Queste ultime sono, essenzialmente, che il bene oggetto della condivisione sia presente in un’area geografica definita e limitata e che ci sia un gruppo di individui definito, omogeneo, stabile, numericamente limitato, motivato nei confronti del bene in questione che appartenga alla medesima dimensione locale del bene.

Gli attori coinvolti sono tutti fortemente motivati a trovare una soluzione che possa garantire un soddisfacimento degli interessi di ognuno di loro a lungo termine. L’obiettivo di questi individui è, infatti, il soddisfacimento dei loro bisogni attraverso uno sfruttamento il più prolungato possibile della risorsa e, a tal fine, realizzano tutte le condizioni per preservarne e tutelarne l’esistenza nel lungo periodo. La razionale massimizzazione dei propri interessi di lungo termine diventa la migliore garanzia per la tutela dei beni condivisi.

La Ostrom, a differenza di Hardin, considera la realtà costituita da individui che hanno relazioni sociali preesistenti, che comunicano tra loro e che stabiliscono, attraverso un processo partecipativo, deliberativo e discorsivo, le regole di accesso e di utilizzo dei beni comuni e si impegnano a rispettarle. Sono individui consapevoli di avere un destino comune e sono aperti alla comunicazione, al confronto e, quindi, anche all’accordo con i propri simili.

Area protetta come paradigma di “bene comune”

Come afferma Alberto Magnaghi in “Il territorio bene comune” del 2012, «il territorio, frutto di processi coevolutivi fra civilizzazioni antropiche e ambiente, è un immane deposito stratificato di sedimenti materiali e cognitivi, un’opera edificata con il lavoro di domesticazione e fecondazione della natura, ‘oggettivato’ in paesaggi, culture e saperi, che si configurano come patrimonio collettivo, dunque ‘beni comuni’ per eccellenza, che possono essere posti al centro delle sperimentazioni di modelli socioeconomici alternativi».

Il Parco Nazionale del Matese, come “Area Protetta”, rappresenta per sua intrinseca natura, e in modo esemplare, il “bene comune” proprio come identificato da Alberto Magnaghi.

Il territorio, la biodiversità, il paesaggio, sono, per le popolazioni che lo abitano, lo attraversano, lo visitano, le risorse fondamentali da cui trarre vantaggio nell’immediato e nel lungo periodo. Il modo più razionale per trarne vantaggio è quello di valorizzare e preservare il patrimonio ambientale e quello ecologico ma anche quello culturale, quello sociale e quello economico, perché essi vivono tutti in profonda “simbiosi”.

Il ruolo dei cittadini e delle comunità come elementi di regolazione necessari al mantenimento dell’equilibrio uomo-natura e alla valorizzazione di questo patrimonio collettivo, è imprescindibile. I cittadini del Parco, come attori direttamente coinvolti, sono fondamentali nel determinare, attraverso gli strumenti di gestione del Parco, le norme di tutela e di sviluppo dell’Area Protetta e, attraverso il loro comportamento quotidiano, nel determinare le modalità concrete di tutela e gestione del territorio.

Per tutte queste ragioni il Parco Nazionale del Matese rappresenta una condizione ideale e, quindi, una straordinaria opportunità, per sviluppare un modello di gestione che ponga in essere le migliori pratiche di cura del bene comune. Spetta a noi, indigeni ed abitanti del Parco, trasformare questa opportunità in realtà concreta.

Vincenzo D’Andrea, Presidente “Consulta del Matese”

Lucio Pascale, Presidente Associazione “Amici di Pericle”

 

Articolo pubblicato sul numero di dicembre 2019 della rivista Il Bene Comune, speciale “Parco Nazionale del Matese”.

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